“Il nascere si ripete
di cosa in cosa
e la vita
a nessuno è data
in proporietà
ma a tutti in uso…”
(Lucrezio, De rerum natura)
Si assiste ancora oggi con ammirazione ammutolita ed estasiata alla visione de Il pianeta azzurro di Franco Piavoli, capolavoro di un regista resistente e appartato che nel 1982 riuscì, con la sua opera prima, a immortalare il respiro della natura e del creato con una purezza forse irripetibile. Documentarista con alle spalle un passato da avvocato e insegnante, l’approccio di Piavoli alla settima arte è inscindibile da uno stupore totalizzante e alieno da sovrastrutture, quasi naïf nel suo procedere per impressioni, frammenti e bagliori. Organizzati, tuttavia, in uno scorrere incessante e stupefacente di sequenze fluide e immaginifiche, che riescono come meglio non si potrebbe a coniugare la profondità della vocazione documentaria alla sincerità accorata e commovente dell’afflato poetico. In costante oscillazione tra particolare e universale, tra materico e divino, tra dettaglio accecante e luminoso disegno d’insieme.
Sono queste le prerogative che rendono Il pianeta azzurro un oggetto prezioso, da richiamare alla memoria e da disseppellire rivendicandone l’attualità, specialmente in un tempo in cui la riflessione sul cosmo veicolata per mezzo delle immagini è stata di fatto azzerata da un appiattimento spesso colpevole su un’estetica derivativa e inerte, come se fosse impossibile evitare la copia carbone del National Geographic maturando una chiave di lettura personale e autarchica nei confronti di quei prodotti audiovisivi generati a distanza ravvicinata dagli ecosistemi naturali. Presentato all’epoca alla Mostra del cinema di Venezia e adorato addirittura da Andrej Tarkovskij, che gli dedicò parole al miele (“Il pianeta azzurro è un poema, un viaggio, un concerto sulla natura, l’universo, la vita. Un’immagine diversa da quella sempre vista”), Il pianeta azzurro, a distanza di trentaquattro anni dalla sua realizzazione, rimane ancora oggi un film vergine, un ufo preziosissimo, spericolato, quasi commovente.
Realizzato in Valbruna, tra Brescia e Mantova, e venuto alla luce anche grazie all’intervento decisivo in qualità di produttore di Silvano Agosti che lo propose a Piavoli, questo poema per immagini ancestrale e primordiale cattura lo scorrere impassibile del tempo con la stessa vocazione epico-filosofica del De rerum natura di Lucrezio, guarda caso citato in apertura, lavorando tanto sulla sostenutezza estetica di ogni fotogramma quanto sulla sua componente riflessiva. L’acqua, i giorni, le stagioni, le forme di vita più infinitesimali, la presenza dell’uomo, i rumori, gli insetti, : una miriade di elementi incastonati in una specie di sinfonia libera e sciolta da ogni vincolo, dove perfino l’incedere viscoso di una lumaca su una superficie è filmato nella maniera più ipnotica possibile. Lavora in maniera miracolosa soprattutto sul silenzio, Il pianeta azzurro, restituendo il cicaleccio assorto e composto della natura, il cui battito è catturato da Piavoli con la sensibilità rigorosa e lieve di un poeta delle piccole cose, attento a ogni gesto o dettaglio, a ogni minimo sussulto o rantolo. Alle nuvole come come alle profondità del suolo, alla fisicità della terrà come alle correnti del mare e del cielo.
Se la parte centrale del film, che vinse il premio per un nuovo autore sempre al Festival di Venezia e il premio della critica al Festival di Nyon, è interamente dedicata al lavoro nei campi, è l’ultimo blocco del film il più tetro, lunare e spiazzante, quello dove, per intenderci, la sensibilità pascoliana di Piavoli lascia il posto a un sentire più vicino allo struggimento leopardiano: basta uno sguardo da una finestra proiettato sulla natura per rivelare un intero mondo di mistero e turbamento. Un enigma che però non diminuisce di una virgola, e semmai potenzia a dismisura, la perfezione indisturbata e inesplicabile del creato, una macchina perfettamente oliata, tanto estatica e ammirevole quanto chiusa in se stessa e apparentemente prima di motivazione.
Un circuito che Piavoli trasferire su pellicola con impressionante autenticità e urgenza, un sistema chiuso ravvivato e reso pulsante, in maniera cruciale, dalla presenza umana: entro la prima mezz’ora del film il regista ci regala un momento indimenticabile, un contatto tra due innamorati fatto di baci, carezze tra i capelli, dettagli sensoriali, epidermidi che si sfiorano, bocche, occhi, unghie. Tutto messo lì a ricordarci che dopotutto siamo essenzialmente animali senzienti, relativi rispetto all’assoluto e dunque di esso responsabili e depositari. Delle effusioni filmate nella maniera più ellittica, corporea e sinuosa possibile, nelle quali è possibile percepire in maniera tattile l’incanto dell’incontro erotico ma anche l’ebbrezza di uno scambio avvolgente e non filtrato tra l’uomo e la natura che lo ospita. Un’osmosi che non può che essere, appunto, una scena d’amore.